mercoledì 16 novembre 2011

Le patacche dei Complottisti

Sebbene abbia un curriculum di tutto rispetto e goda di una reputazione più che ottima in tutto il mondo, il neo presidente del Consiglio Mario Monti, pur non avendo fatto cenno a uno solo dei provvedimenti che intenderà attuare, già spacca l’opinione pubblica. Non trovando quindi materia per fare il solito processo alle intenzioni, come tanto piace fare a quegli italiani che di intenzioni vivono e di intenzioni muoiono, i detrattori di Monti hanno posto l’attenzione su tre aspetti particolari della sua biografia: la carica di rappresentante europeo della commissione Trilateral; l’advisor della Goldman Sachs; il ruolo di membro del gruppo Bildelberg.

Questi tre gruppi, secondo quelli che comunemente vengono definiti “complottisti”, sarebbero gli artefici di un Golpe Globale ai danni delle masse. In effetti ci sono da notare alcune strane coincidenze. Mario Draghi, attuale presidente della Banca centrale Europea, dal 2002 al 2005 è stato vicepresidente e membro del management Committee Worldwide della Goldman Sachs. Del premier Mario Monti abbiamo già detto. Lucas Papadémos, il neo premier greco, ha anche lui lavorato per Goldman Sachs ed è membro della Trilateral. Ma, senza scavare molto, si trovano di questi legami anche per altri illustri personaggi come Giulio Tremonti, Romano Prodi, Massimo Tononi, Gianni Letta, Angela Merkel, Margareth Tatcher e via dicendo. Come spiegare tutte queste coincidenze? Semplicemente riconoscendo che non sono coincidenze.

Gli incontri che avvengono in seno alla commissione Trilateral o al gruppo Bildelberg sono occasioni in cui vari leader politici, intellettuali, affermati tecnocrati ed economisti si confrontano su tematiche di interesse sovranazionale, tenendo conto delle interconnettività dei fenomeni economico-finanziari che il capitalismo finanziario e la globalizzazione si portano dietro. Lo stesso vale per gli economisti provenienti da Goldman Sachs che, come afferma Franco Reviglio, professore alla Facoltà di Economia dell’Università di Torino, ai microfoni di Rainews24, non hanno alcun tipo di rapporto con le banche d’affari, principali imputate per la crisi che stiamo vivendo, anche perché gli economisti ricoprono solitamente il ruolo di advisor, consulenti. Tuttavia, e torniamo al Golpe Globale, ciò non ha impedito ai più lungimiranti di ammorbarci con ricostruzioni che a definire fantasiose si fa un torto alla semantica. Si parla infatti di un Nuovo Ordine Mondiale, di una elìte massonica che, in virtù di un Disegno Globale, intende sottomettere artatamente le Masse del mondo, decidendo del Bene e del Male. Un ‘deus ex machina’ oscuro che intende minare la sovranità degli Stati per attuare il suo progetto di Dominio sulla Terra.

Non ci vuole particolare ingegno per capire che sono un mucchio di fregnacce. E tuttavia duole constatare che queste fregnacce trovano un largo seguito, soprattutto in rete, complice anche l’attivismo di certi blogger che definire pataccari è poco. La presentazione di certe informazioni, senza un’opera di mediazione da parte dei blogger (e qui si potrebbe aprire un capitolo sull’informazione on-line) e dei ‘giornalisti’ web, può evidentemente alimentare fenomeni di disinformazione molto pericolosi. Lo si è ben visto quando, nell’ultima puntata di Servizio Pubblico, il risultato del sondaggio sull’ipotesi di un governo tecnico a guida Monti, sebbene all’inizio fosse favorevole, si è capovolto non appena il blogger Claudio Messora ha citato i legami tra Monti e i tre enti succitati. Santoro ha lasciato sommessamente intendere che era una visione complottista, mentre Vittorio Feltri non ha preso in considerazione il legame affermando, in un sussulto di pragmatismo, che la causa della crisi italiana è il debito pubblico, causato da una cattiva amministrazione da parte delle nostre classi politiche. Niente di più, niente di meno.

Una specie anomala, quella dei complottisti, e soprattutto variegata. Ne fanno parte un po’ tutti: berlusconiani, grillini, comunisti, gente sia di sinstra che di destra. Che trovano i loro guru in blogger e giornalisti come Claudio Messora, Paolo Barnard e Giulietto Chiesa, tutti riuniti nella trasmissione Matrix di Alessio Vinci del 15 novembre. Il termine complotto a loro però non piace. C’è chi parla di un conflitto di interessi, chi di truffa, chi di colpo di Stato. Secondo Barnard infatti, l’Italia è stata esautorata della sua sovranità, dovendo sottoporre il proprio bilancio, prima ancora che al Parlamento, alla Commissione Europea. Ergo, vien da sé, in Italia abbiamo avuto un colpo di Stato e non ce ne siamo accorti. Sempre secondo Barnard, la Bce non ha voluto comprare titoli di stato dell’Italia (avrebbe provocato una riduzione dei tassi di interesse con evidente beneficio del nostro paese) causando l’avvicendamento improvviso a Palazzo Chigi. Ergo, vien da sé, è un colpo di Stato. Messora chiede che il contenuto degli incontri segreti di Bildelberg sia reso pubblico, altrimenti, s’intende, si è autorizzati a trarre conclusioni destituite di fondamento su quello che gli economisti si dicono. Giulietto Chiesa, invece, è ancora più intransigente: noi il debito non lo paghiamo, lo abbiamo già fatto.

Da queste visioni, che se vogliamo trovano una loro ragion d’essere, seppur con dei punti di forte criticità – tralasciando poi le conclusioni cui arrivano (colpi di Stato, logge segrete, non pagare il debito) che hanno, almeno per chi ha un po’ di senso critico, tutta l’aria delle bestemmie - ne deriva il filone complottista molto diffuso sulla rete. Un filone che non ammette altre versioni sulle cause dei problemi economici mondiali se non questa: che i banchieri vogliono decidere delle sorti del mondo. I banchieri sono un elìte il cui unico obiettivo è una politica mondiale ai danni dei cittadini di Europa, Stati Uniti e paesi orientali. E la nomina di Monti e Papadèmos a presidenti del Consiglio italiano e greco è la prova che la finanza sta scalzando la sovranità nazionale per imporre i suoi uomini e minare la democrazia. Alcuni cospirazionisti arrivano addirittura ad affermare che sia in atto un complotto sionista, non rendendosi conto che, in nome della libertà che invocano, assomigliano più a un Hitler che a un Marx. Ma questi sono dei casi disperati.

Insomma, chi la chiama in un modo, chi in un altro, l’idea di fondo è questa: c’è in atto un golpe globale ad opera della Grande finanza ai danni delle sovranità nazionali, di cui i popoli vengono privati. Non sanno, gli sciocchi, che i popoli non hanno, pragmaticamente, alcuna sovranità, dacché vi rinunciano delegandola ai loro rappresentanti politici (e, al netto dell’onesta di quei politici, è un bene che sia così, dato che la bontà della democrazia diretta è solo un mito cui solo i più gonzi vanno dietro) e che poi si perde negli eccessi della burocrazia. Non si prende in considerazione una possibile incapacità dell’Unione Europea di indicare una linea politica a tutti gli stati sulla tenuta dei conti e la gestione delle finanze; né che l’errore di fondo stia sì nel sistema finanziario, ma è dovuto alla mancanza di politiche sovranazionali atte a proteggerlo dai fenomeni puramente speculativi e all’assenza di organismi di controllo; non si prende in considerazione, infine, l’ipotesi che se siamo allo sbando è perché manca proprio quello che loro vedono, ovvero un organo al di sopra degli stati che regoli il capitalismo finanziario. È il vuoto della politica che genera quel divario esistente tra economia reale ed economia virtuale.

È evidente che con la globalizzazione non si possa parlare più di economia nazionale, ma si debba parlare di un’economia globale. Ebbene, se prima la politica poteva detenere il primato sull’economia proprio perché essa si muoveva all’interno del proprio stato, oggi che sono cadute tutte le barriere e gli spazi sono diventati sempre più ampi, risulta evidente la sua incapacità e il bisogno di una revisione delle politiche sovranazionali, indubbiamente inadeguate allo stato attuale nonostante gli sforzi fatti. Ovvero, l’azione politica deve riaffermarsi su quella economica, attraverso organismi indipendenti dai singoli stati, ma a cui ogni stato contribuisca nel suo interesse e nell’interesse degli altri.

Che la crisi economia sia molto complessa, lo abbiamo capito tutti. Ma di soluzioni, a oggi, non ne sono state trovate. E proprio per tale ragione bisogna smetterla di dare credito a chi si prodiga affannosamente per offrirci la sua semplicistica e goffa soluzione, rivoluzionaria o meno che sia (di solito è rivoluzionaria). Bisogna smetterla di andar dietro a quei blogger venditori di fumo - che oggi vanno tanto di moda - che ciarlano di Nuovi Governi mondiali e patacche simili. Insomma, bisogna smetterla di farsi convincere dai pagliaccismi al cui afflato spesso non sappiamo resistere. Perché dei pagliacci – lo abbiamo appena visto con Berlusconi – a lungo andare non si sa cosa farsene. 

domenica 13 novembre 2011

Il Piazzale Loreto dell'Italia berlusconiana

Una volta, Ugo Ojetti disse a Montanelli: “Figlio mio, ti accorgerai anche tu che l'Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri. Perciò, senza memoria”. Non si trova, ad oggi, definizione che si attagli meglio al nostro popolo. E a rinforzo di questa tesi si può portare l’esempio che stiamo vivendo in questi giorni: le dimissioni di Berlusconi.

Nei momenti di festa, quei pochi che in Italia ci vengono concessi, i guastafeste sono sempre guardati di sbieco, anche perché non avendo storicamente mai avuto molto da festeggiare, ci si lascia andare a leggerezze che coi cinici seccatori mal si conciliano. Ma qualcuno, questo turpe ruolo, lo deve pur ricoprire.

Le dimissioni di Berlusconi, salutate dalle piazze come una riedizione del 25 aprile, hanno scatenato un’euforia condivisa, certamente attesa, probabilmente poco meritata. Intendiamoci, che Berlusconi se ne sia finalmente andato non può che essere considerato un bene per la nazione. Quello che invece sfugge allo spirito critico popolare, e anche a molti intellettuali, è la ragione per cui ha lasciato la scena. Ed è bene metterlo in chiaro sin d’ora, a scanso di tutti i tentativi politici di mettere il cappello su una presunta vittoria che a tutti può appartenere fuorché ai partiti: le dimissioni di Berlusconi ci sono state imposte dai mercati. Insomma, come in tutti i momenti di forte criticità che il nostro paese si è trovato ad affrontare, l’ancora di salvezza è stata gettata da un’altra nave, non dalla nostra. In questo caso, è bene ripeterlo, i mercati hanno fatto la parte che avrebbe dovuto giocare la nostra classe politica, che come al solito ha dato buca. Come da prassi.

Non per scadere nei luoghi comuni, ma la Storia ama ripetersi, e nel nostro paese lo fa anche con singolare sadismo. Lo si è visto con il Fascismo, sulla cui fine si può dar credito a qualsiasi tesi, meno che a quella per cui noi italiani abbiamo giocato un ruolo determinante. Del fascismo ce ne liberammo grazie agli americani, il contributo dei partigiani fu certamente lodevole da un punto di vista patriottico, ma da quello pratico fu solo una timida spallata a fronte della caterva di scoppole ricevute. I nazisti li avrebbero crocifissi lungo la via Appia, come Crasso fece con Spartaco e il suo esercito, se non fossero intervenuti gli Alleati. A noi, insieme all’ammirevole prova dei partigiani e alla retorica, che in Italia non tramonta mai, è rimasto sul groppone Piazzale Loreto, forse la pagina più triste della nostra Storia, e per questo la più taciuta. Un popolo che fino al giorno prima si era privato dei suoi averi più preziosi per sostenere lo stato fascista, ora sputava e inveiva sui cadaveri dei suoi gerarchi, in uno sventurato tentativo di recuperare una verginità politica oramai persa.

E lo si vide subito dopo, quando una larga fetta dell’elettorato italiano tentò di affidare, alle elezioni del ’48, il mandato politico al Partito Comunista di Togliatti, che altro non era se non un facsimile di quello stalinista. Allora si riuscì a mettere una pezza prima di creare la falla solo e unicamente grazie alla Chiesa, di cui in quell’occasione ci dobbiamo considerare debitori. È un merito che, se si vuole rendere un servizio alla propria onestà intellettuale, è doveroso riconoscerle. La Chiesa scese in politica, fiancheggiata non solo dall’associazionismo cattolico, ma dalle parrocchie, dagli oratori, da qualsiasi succursale del suo ascendente fideistico per arginare la deriva comunista a cui l’Italia si apprestava ad allargare le braccia. E sebbene l’ingerenza della Chiesa negli affari interni italiani sia di certo un valido motivo per criticarla, quella volta fu provvidenziale. Ma ci salvammo per un intervento esterno, non certo da noi.

E lo si è visto, ancora, con Tangentopoli. Quando la classe politica, non essendo capace di ripulirsi da sola, fu travolta dall’ondata di inchieste di Mani Pulite. Venne fuori tutto il marcio, il cui lezzo promanava da qualsiasi struttura dello Stato, da qualsiasi ente, da qualsiasi sede di partito. E ci si provò a guarirla, quella classe politica, attraverso l’attività dei magistrati, nonostante i politici facessero fronte compatto per salvaguardare i propri interessi e la propria licenza di delinquere. Anche stavolta, tocca riconoscere, l’opera di risanamento fu tentata da un potere esterno a quello politico, la magistratura. Il risultato lo abbiamo visto nel ventennio successivo, di cui oggi ci accingiamo a raccogliere l’eredità e il peso. Il frutto malato di Tangentopoli è stato Berlusconi, non tanto la causa della mancanza di una coscienza politica nazionale, quanto l’effetto. Perché? Perché gli italiani non sono mai stati capaci di risollevarsi da soli, con le sole loro forze. Hanno sempre aspettato che l’uomo della Provvidenza venisse da fuori a salvarli. Gli Alleati, la Chiesa, Mani Pulite, Berlusconi, sono tutti la vergognosa attestazione dell’inadeguatezza tutta italiana a venir fuori dalle difficili situazioni facendo appello alla sola ragione dei suoi cittadini e di chi li rappresenta.

E se qualcuno oggi paventa il pericolo per la democrazia, minacciata da un governo di tecnici, estranei ai partiti politici e quindi non “eletti dal popolo”, è meglio che taccia. Oggi la politica non è in grado da sola di fare tutto l’indispensabile per evitare il fallimento del paese, lo ha dimostrato abbondantemente portandoci sull’orlo del baratro su cui oggi vertiginosamente ciondoliamo. È meglio quindi che ceda il passo a persone la cui credibilità risulti ancora intatta, e ripensi a quanto poco e male ha fatto dal dopoguerra ad oggi. E si ripresenti alle prossime elezioni con una faccia nuova. Oggi è il momento da farsi da parte, domani il mondo politico avrà di certo un’altra possibilità. Per converso, la società civile non è meno colpevole. Nessun lancio di monetine, nessuno sputo o dito medio domani potranno ravvivare la dignità degli italiani, il cui spirito critico si sveglia sempre con netto ritardo rispetto agli eventi. Gli italiani, è bene ricordarcelo, non solo hanno assistito a questo scempio che dura da anni, ma hanno contribuito fortemente acchè avvenisse. Fa più bene all’amor proprio che alla propria onestà morale appostarsi fuori dai palazzi o nelle piazze per berciare e inveire contro i politici, mentre per tutta una vita si è stati silenziosamente testimoni o finanche sostenitori. Così come nel ’45 si faticava a trovare dei fascisti, oggi si fatica a trovare dei berlusconiani.

Quella di ieri non è stata una vittoria degli italiani. Fosse stato per noi, Berlusconi ce lo saremmo tenuto fino a quando il Padreterno non si fosse stufato. Al massimo è stata una vittoria di Pirro, sulla quale noi cittadini, al pari dei politici, non possiamo mettere il cappello.
Ieri abbiamo assistito a un altro Piazzale Loreto, seppur in chiave postmoderna e parecchio annacquata. Speriamo di non dover più vedere di queste scene per il resto della nostra storia. Ne abbiamo già viste abbastanza.

mercoledì 9 novembre 2011

Le dimissioni all'italiana

In un paese come l’Italia, le dimissioni del presidente del Consiglio non potevano essere rassegnate che all’italiana: mi dimetto, ma con calma, che è tutta ‘sta fretta. Stavolta però di tempo ce n’è davvero poco. Per di più non c’è da dar conto soltanto agli italiani che, sebbene di lingua lunga, si sono rivelati di memoria piuttosto corta, quanto all’Europa che di corto non ha nulla se non il braccino. Ma facciamola breve. Non si può analizzare la situazione politica nazionale senza tenere in considerazione quella economica internazionale, dacché sono molte le sorti appese al filo della nostra legislatura. Non sappiamo, ad oggi, quale siano le reali intenzioni di Berlusconi, tantomeno se abbia lasciato il Quirinale con sul volto un sorriso beffardo come a dire: “Ti ho fregato di nuovo”. Le ipotesi sono due, sostanzialmente: la prima è che abbia davvero intenzione di rassegnare le dimissioni, non senza badare al suo personale tornaconto, politico o personale che sia. Se e quali leggine ad personam inserirà nel maxi-emendamento alla legge di stabilità, solo Dio lo sa. Ma questa è forse, difficile a crederlo, l’ipotesi più rosea. Quella più negativa invece è questa: Berlusconi sottopone all’esame del Parlamento una legge finanziaria con dentro, tra le altre, norme critiche per una parte dell’aula, e nella fattispecie per l’opposizione, come ad esempio norme sulle pensioni o sull’articolo 18. Il risultato sarebbe perentorio: l’opposizione, che già tanto ha faticato a trovare una comunità d’intenti, si spaccherebbe, e il governo troverebbe nuova linfa per tirare avanti, seppur trascinandosi. Ma a quest’ultima ipotesi poco ci crediamo. Nel Pdl tutti si sono resi conto, seppure con colpevole ritardo, che un ciclo è finito e che la legislatura non potrà avere una conclusione se non in anticipo rispetto alle regolari scadenze. Non perché lo chiede l’Italia, quanto perché lo impone l’Europa.

Ma proprio perché dobbiamo guardare con un occhio all’Italia e con l’altro all’Europa, c’è da pensare a quel che accadrà subito dopo le dimissioni di Berlusconi. Anche qui le ipotesi sono essenzialmente due. Quella delle elezioni anticipate è la via caldeggiata da Pdl e Lega, e hanno buone ragioni per farlo. Le prossime elezioni le hanno già perse, quindi continuare a reggere per i denti l’anima di questa legislatura non si capisce a chi giovi. Con un restyling di facciata, Alfano al posto di Berlusconi, e una fase di forte instabilità sociale, alla quale andremo incontro non appena verranno attuate le misure economiche che l’Europa ci chiede, avranno vita facile nella lotta a coltello con i loro avversari. D’altro canto il Terzo Polo non sapendo ancora se allearsi con qualcuno e soprattutto con chi, è quello che rischia di pagare il prezzo più alto per l’instabilità politica di questo momento (un momento che dura dalla Costituente, per inciso). È per questo che le opposizioni pensano ad un governo tecnico guidato da Mario Monti, persona dalle indubbie qualità e che gode della fiducia di tutto il panorama politico. La sinistra avrebbe in tal caso altro tempo per riorganizzarsi, o meglio di organizzarsi per la prima volta dacché non si è mai data un vero e proprio garbo politico. In effetti, la sinistra ancor prima di vincere le elezioni quasi fa rimpiangere il dimissionario Berlusconi che un’unità d’azione, se non sulla base degli intenti, per lo meno su quella dei compensi, l’aveva tuttavia raccattata. Al netto dell’ironia, un governo tecnico darebbe tempo a Bersani di costruire una valida alternativa, che per ora, checché se ne dica, non c’è.

Nel caso di un governo Monti, lamentano però alcuni, la scelta di un uomo esterno agli schieramenti partitici sarebbe la certificazione tombale dell’incapacità di questa classe politica di risollevarsi da sola. Inoltre, un governo di larghe intese sarebbe la morte della martellante illusione che ci hanno propinato fino ad oggi sull’imprescindibilità del bipolarismo. Ebbene, siamo arrivati per l’ennesima volta  a due conclusioni che davamo già per acquisite. Il prima è che questa classe politica va definitivamente accantonata per fare spazio a una nuova. E l’altra è che, ad oggi, l’Italia non è pronta per un vero bipolarismo, la nostra tradizione partitica e politica ancora non ce lo consente. Che questa classe politica abbia fallito tutti i programmi che si era prefissata, è sotto gli occhi di tutti. Qualcuno storce il naso, però, quando si spera in un'intromissione dell’Europa negli affari politici interni. L’impotenza italiana di risollevarsi da sola sembra più che un rammarico, una constatazione a cui non si può e non si deve sfuggire. Le stesse dimissioni di Berlusconi non sono arrivate alla fine di una manovra politica tutta italiana, quanto per un imposizione perentoria dei mercati, che del modo di fare italiano ne hanno già piene le scatole.

L’Europa in effetti è per l’Italia quello che la suocera è per le giovani coppie da poco sposate: un fastidioso personaggio che gira per casa, e che non vediamo l’ora di mettere alla porta, se non fosse che senza di lei non sapremmo come riportare a casa i bambini dalla scuola. I bambini, per inteso, siamo noi italiani. 

lunedì 10 ottobre 2011

Quei 10 euro per Santoro

Che Michele Santoro sia un bravo giornalista, capace di confezionare un prodotto televisivo altamente informativo e al tempo stesso di attrarre a sé il grande pubblico, lo abbiamo visto. I numeri parlano chiaro, e le critiche al confronto sviliscono. Il problema, però, è nato quando Santoro, per andare in onda col suo nuovo progetto “Comizi d’amore”, ha chiesto al suo pubblico un aiuto: 10 euro. In rete, quella su cui il giornalista fa principalmente affidamento, la maggior parte dei cori è d’approvazione. “Fatto”, “Tutta la vita per Santoro”, “Anche di più, te lo meriti” e via dicendo. Ma ce ne sono altri, invece, che quei dieci euro proprio non li vogliono sborsare. Sbagliato? No, giusto. Giustissimo. Sacrosanto. Se a uno gli pesano, quei dieci euro, gli pesano. C’è poco da sbraitare.

Ma facciamola breve: quello che fa perdere la bussola non è il negare il proprio contributo, ma alcune delle motivazioni che si accampano per non darlo. Proviamo a farne una rassegna: “Io sono uno dei tanti giornalisti precari, non ha mai parlato dei nostri problemi, e quando intervistato, ha glissato sull’argomento”. “Ha ricevuto una liquidazione milionaria dalla Rai, se lo paghi con quello, io sono precario”. “Già pago il canone Rai”. “Non ha mai parlato delle donne, quelle vere che tengono in piedi questo paese, ma sempre delle prostitute di Arcore”. “Quando Santoro prende il suo stipendio non lo viene a dividere con me”. “Ha i soldi della pubblicità, usi quelli”. “Perché mai dovrei pagare uno spazio in cui non si è mai parlato di violenza contro le donne, di criminalizzazione delle lesbiche, neppure di donne migranti che finiscono per fare le badanti o le prostitute”. “Io dieci euro li darei per Iacona, per Vauro, non per Santoro”. “Si è paragonato al tunisino che ha dato il via alle rivolte nel Maghreb, paragone irrispettoso, non merita i miei soldi”.

Quello che emerge è un quadro deprimente. Non per Santoro, s’intende, ma per coloro che si fanno specchio di scusanti sciapite e pelose per motivare la mancata offerta. Come se l’offerta fosse un dovere morale al quale, se non lo si adempie, bisogna trovare una giustificazione. Si può invece anche dire “No, non farò l’offerta perché non me la sento”, oppure “No, perché non mi va”. Risposte più che legittime, che si guardi o meno il programma. E al tempo stesso si eviterebbe di martoriare le letture degli altri con spiegazioni arrancate e goffe.

Perché il punto è questo. Credo che se sei un giornalista precario e hai bisogno che Santoro dia voce ai tuoi problemi, sia più che comprensibile, ma non per questo bisogna fargliene una colpa se non te la dà. La voce che chiedono (la minoranza certamente dei precari) a Santoro potrebbero usarla per urlare ancor più di quanto già facciano contro la Fnsi, l’OdG e la Fieg. Prendersela con un giornalista, seppur famoso, è un po’ come battere il basto invece dell’asino. E lo stesso discorso vale per le donne che non si sentono rappresentate, e per gli uomini, i lavoratori, gli studenti e via dicendo. Non è dando quei dieci euro a Santoro che si possono accampare pretese sul programma. Il “ti do i miei soldi ma tu poi parli dei miei problemi” è il classico ragionamento all’italiana per il quale, qualsiasi interesse si faccia, deve essere il mio interesse. Cadono a grappolo tutte le prosopopee sulla libertà dell’informazione, sul futuro della comunicazione e tutte le altre solenni parole di cui ci siamo ingozzati. Santoro è ricco, ha preso due milioni due dalla liquidazione. Quindi deve sganciare la grana, altro che battere cassa. Senza sapere se abbia contribuito al programma di tasca sua o meno, dato che non viene nemmeno presa in considerazione l’idea che l’abbia già fatto. Lo si dà per scontato, lui il borsello lo tiene al sicuro.

Comunque, il tempo delle ciance è finito. Santoro mette su un nuovo programma, senza un editore (per i meno esperti: un finanziatore) che gli copra le spalle (anche da rivalse dinanzi a un giudice). Lo volete aiutare? Se sì, bene, se no, bene lo stesso. Ma non ammorbateci con scuse avvizzite dal moralismo spiccio. Ad esso risulta preferibile persino la taccagneria.

giovedì 6 ottobre 2011

La maggioranza sul 'bavaglio'. L'unica chance è il tradimento

Mentre inizia a calare l’attenzione popolare sulla morte di Steve Jobs, che di tutti gli avvenimenti sorprendenti della sua vita è forse il meno sorprendente, e sulla ripresa dell’attività di Wikipedia, che ha confortato tante persone timorose di perdere la loro precipua fonte d’informazione e di sapere, si può forse tornare a parlare della questione che, al pari della crisi economica, merita maggiormente di essere affrontata nel nostro paese: il disegno di legge sulle intercettazioni.


Girovagando per la rete non si fatica purtroppo a trovare, a dispetto delle numerosissime critiche, alcuni articoli (desta stupore che a farlo sia ad esempio un sito rinomato come linkiesta.it) e qualche commento in difesa del disegno di legge in questione. Sia chiaro, quelli che colgono  - come e perché ci sfugge al momento - degli elementi positivi nel ddl sono la netta minoranza. E in effetti ciò che fa a pugni con la ragione non è certamente la quantità delle persone che lo difendono, quanto il fatto che quei pochi difensori siano ascrivibili, sebbene non la rappresentino, alla categoria che più ne risulterebbe danneggiata: quella dei blogger e degli informatori. Un blogger che consideri giusto o giustificabile il comma 29 (cd. Comma ammazza-blog) va a porsi sullo stesso piano di quel “giornalista” che è d’accordo al bavaglio sulle intercettazioni.

Affermare il valore imprescindibile della rettifica è un’idea nobile, ma come tutte le idee nobili rischia di morire nella culla prima di raggiungere la sua realizzazione. Quelli che credono sia opportuno responsabilizzare i blogger attraverso la possibilità di una rettifica ‘sempre e comunque’ al fine di evitare condotte diffamatorie dimenticano che una legge in materia già esiste, e fa capo all’art. 595 del codice penale, ovvero il reato di diffamazione. Insomma, se ti ritieni diffamato, querelami. Il sospetto che sorge spontaneo è questo: che, essendo tutelato dalla legge (art. 596 c.p.) il principio di eccezione della verità, per il quale l’attribuzione a un pubblico ufficiale di un fatto determinato che si dovesse appurare effettivamente accaduto non è punibile (per cui se scrivo che Tizio ha preso una tangente, e il giudice stabilisce che le cose sono effettivamente andate così, non sono sanzionabile), ed avendo la Cassazione ammesso la possibilità per i blogger di dimostrare fatti determinati a patto che rispettino criteri fondamentali come verità obiettiva, rilevanza sociale, continenza e pertinenza, l’intento del legislatore possa essere quello di colmare un’evidente “vacatio legis” con una norma censoria. Se per affermare che Caio ha rubato, devo anche aggiungere che Caio non ha rubato, in effetti non posso dire nulla senza dire il suo contrario. Sono insomma censurato. Pensare di risolvere il problema della responsabilizzazione del web in questo modo è un pestar l’acqua nel mortaio.

Alla stessa maniera, l’idea che si possa regolare la pubblicazione delle intercettazioni semplicemente non pubblicandole ha un suono più falso delle campane fesse. Laddove fosse accertata la fuga di intercettazioni ancora coperte dal segreto investigativo, sarebbe bene che a pagare fossero i responsabili della fuga di notizie, non certo i giornalisti che ne vengono messi al corrente. Nel caso poi di pubblicazioni di conversazioni ritenute irrilevanti, è bene ribadire che anche qui la legge già regola la materia. Per essere pubblicabili, le intercettazioni devono rispettare il criterio di rilevanza sociale e il principio di essenzialità dell’informazione. In caso contrario possono consistere in illecito penale, diffamazione o violazione della riservatezza, ad esempio. È evidente, quindi, quanto l’intento del legislatore sia, ancora una volta, diverso da quello che ci vogliono dar a bere. Il casus belli che ha portato questo governo a muover guerra ai giornali è sotto gli occhi di tutti. Perciò non c’è da sorprendersi se pensa di risolvere i problemi dando alla guardia il piede di porco e al ladro le manette.

Il dato peggiore, però, è che sulla legge bavaglio sarà probabilmente apposta la fiducia. In tal caso, per mettersi al riparo dai franchi tiratori che allignano nel voto segreto, il voto palese porterebbe la maggioranza a serrare le fila, e ad approvare una legge chiaramente incostituzionale pur di rimanere attaccati alla poltrona o di non attirarsi le ire e le vendette degli alleati. Questo Berlusconi lo sa, dacché gli è giunta l’eco dei molti mal di pancia che animano il suo partito. Se Scajola, Pisanu e Formigoni non esitano a mandare messaggi pubblici in cui manifestano dubbi sul proseguimento della legislatura, vuol dire che nei corridoi del Palazzo i malumori nel Pdl cominciano a prendere davvero una consistenza non trascurabile. E il Presidente della Camera Gianfranco Fini lo ha confermato nella trasmissione di Corrado Formigli su La7, dichiarando che non sono pochi quelli che vanno da lui a dirgli: “Di Berlusconi non se ne può più”.

L’unica via per uscire da questo pantano è il tradimento. Ora che (per fortuna) non c’è più, si avverte un po’ di nostalgia della Democrazia Cristiana, i cui esponenti in certe pratiche erano particolarmente esperti e sotto il tavolo arrivavano persino a stringere la mano al loro nemico, mentre con l’altra, da sopra, gli mostravano il pugno. È necessario un atto di responsabilità che se i nostri politici lo facessero davvero sarebbe giusto definire rivoluzionario. Che vi sia il voto palese è di poco conto. È urgente che i nostro politici lo tradiscano, glielo dicano chiaramente in faccia che non intendono trascinare il paese nel baratro. Loro, che quella faccia l’hanno già persa, hanno il dovere di farlo. 

lunedì 3 ottobre 2011

Amanda e Raffaele liberi. Il colpevole è il magistrato

Amanda è libera. E con lei anche Raffele Sollecito. La Corte di Assise d’Appello di Perugia ha assolto i due giovani per non aver commesso il fatto, ribaltando la sentenza di primo grado che vedeva condannati l’una a ventisei, l’altro a venticinque anni. Una sentenza quindi che non lascia adito a fraintendimenti. Cade infatti l’ipotesi più ventilata, quella di un’assoluzione per insufficienza di prove. Le prove sono sufficienti eccome, secondo i giudici, e scagionano totalmente Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Non lo sono, invece, per quelli che, fuori dal tribunale, urlavano vergogna.

Le sentenze non si discutono, si accettano, si dice. Non in Italia comunque, dove anche quello che dice la Bibbia è suscettibile di interpretazioni contrastanti, addirittura opposte. Sebbene sia doveroso precisare che non solo l’Italia si è distinta per l’accanimento con cui si è prodigata nel seguire questa vicenda, è evidente che noi padroni di casa non siamo stati affatto inclini a cedere agli inglesi e agli americani il primato di santi inquisitori che ci siamo cuciti addosso, per quanto si siano spesi anima e corpo per sottrarcelo. Non entrerò nel merito della vicenda processuale, di cui peraltro poco mi interessa. Quello che conta, alla fine di un procedimento, è la sentenza. Non solo si può, ma si deve resistere alla disgraziata tentazione di improvvisarsi giudici per criticare questa o quella decisione della Corte. Gli italiani, tra il boia e il morituro propendono sempre dalla parte del boia, qualsiasi sia la colpa del morituro. E sebbene non ci fossimo ancora riavuti dalla cantonata presa con Michele Misseri, non abbiamo esitato a ripeterci appena si è presentata un’occasione. Prova, questa, che se gli italiani fossero tutti giudici non ne azzeccherebbero una. Qualcuno potrebbe obiettare che spesso nemmeno i giudici l’azzeccano. È vero, ma almeno loro lo fanno con cognizione di causa. In effetti c’è la sottile ma diffusa idea che un processo, per quanto sia complesso e articolato, debba seguire un determinato corso, ma quale sia questo corso – il giusto corso – sta a noi singoli stabilirlo a seconda della parte per cui propendiamo. E laddove non coincida con quello reale, siamo legittimati a urlare la nostra vergogna.

La sentenza di Perugia getta certamente un’ombra sulla morte di Meredith. Ma ne getta una ancora più grande sull’Italia moralista e inquisitrice. Quell’Italia che non critica i politici sottratti dal voto dei colleghi alle inchieste dei magistrati perché scampati al corso naturale della giustizia, ma perché li ritiene, esplicitamente o implicitamente, già colpevoli. A ben vedere, non fa rabbia che i parlamentari godano di immunità o che non si esimano dal farne puntualmente ricorso. Fa rabbia il fatto che siano colpevoli. A priori e senza sentenza. Si badi, spesso è lecito credere che non siano innocenti, ed è assolutamente legittimo farsi un’opinione in merito. Quello che dovrebbe però smuovere le coscienze non è la propria idea sulla colpevolezza di una persona, quanto l’uguaglianza nel trattamento di fronte alla legge. Lo stesso vale per Amanda e Raffaele. Chi ha urlato vergogna, si spera lo abbia fatto non perché fermamente convinto della colpevolezza dei due giovani, ma perché, dopo una così lunga vicenda processuale, aveva oramai bisogno di un colpevole, chiunque esso fosse. Di buone intenzioni, si sa, è lastricata la via dell’inferno, e per questo è lecito credere che i cori di protesta fossero tutti mossi dall’urgenza di assicurare giustizia alla povera Meredith. Ma non è ragionando con la pancia che si è reso un favore alla disgraziata.

Fino a prova contraria si è innocenti, questa è una regola che vale da sempre. E proprio perché vale da sempre, viene continuamente infranta. Ieri si è giocata una partita anomala. Non si doveva decidere se Amanda e Raffaele fossero colpevoli o innocenti. Si doveva decidere chi fosse il colpevole tra loro e la pubblica accusa. Chi era fuori dal tribunale era pronto a fischiare o gli imputati o i magistrati. L’importante era avere qualcuno da fischiare, ed è toccato ai giudici, rei di non aver confermato la sentenza di primo grado emanata da un altro tribunale. In un’Italietta che si trascina ancora residui e sapori da Sant’Uffizio, fa sorridere che il suo primo ministro sia contestato proprio per il suo rapporto con la giustizia. Il vero guaio è che l’Italia e la legge non vanno proprio d’accordo. L’idea che i cittadini hanno delle regole non è meno aberrante di quella che ne ha chi li rappresenta politicamente.


Si dice che gli italiani debbano essere tutti uguali di fronte alla legge. Ma la Legge è uguale di fronte agli italiani?

giovedì 22 settembre 2011

Milanese è salvo. Chi ha tradito il traditore?

Milanese è salvo, e il governo pure. La maggioranza li ha graziati, con l’ultimo scatto di indecenza e di doppiopesismo. Dopo aver votato per la reclusione di Alfonso Papa, stavolta la Camera ha detto no al carcere per Marco Milanese, braccio destro di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia. Era un voto importante, una resa dei conti, da cui dipendeva la tenuta o meno del governo. Lo stesso Bossi aveva detto ieri che avrebbe votato per “non far cadere il governo”. Un’occasione unica, quindi, per mettere fine allo scempio a cui stiamo facendo da astanti. Ma che non è stata colta, come sempre.

Con 312 voti favorevoli e 305 contrari al respingimento dell’arresto, il governo può andare avanti, seppur debole come non mai. I conti infatti non tornano. Mancano sette voti all’appello, quasi certamente da rintracciare nello schieramento leghista. Sette franchi tiratori sebbene non siano pochi, comunque non sono abbastanza. Ci si aspettava che la segretezza del voto potesse favorire un moto di coscienza nei parlamentari, o anche solo lo sfogo di certe acredini nei confronti di Milanese e soprattutto di Tremonti da parte dei suoi alleati. E il fatto che il ministro dell’Economia non fosse in aula lascia intendere molto bene in quale clima si sia svolta la votazione. Ora tocca vedere quale sarà il prezzo da pagare alla Lega per l’ultimo soccorso prestato a Berlusconi. Perché, questo è fuor di dubbio, Bossi chiederà qualcosa in cambio. Cosa non lo sappiamo, ma ce ne accorgeremo presto.




Insomma, facendoci forti dell’ennesima sconfitta della nostra classe politica, possiamo arrivare a questa conclusione. Che nemmeno la segretezza del voto è riuscita a indurre i nostri parlamentari a uno scatto di dignità e di decenza. Il Parlamento, per salvare Berlusconi dai giudici, è riuscito nell’ardua impresa di tradire persino la sua originaria natura: quella del traditore. 


mercoledì 21 settembre 2011

Presidente Napolitano: sciogliere le Camere o le riserve?

La stavamo aspettando con ansia. Con leggero ritardo, la risposta del Presidente della Repubblica alla deriva secessionista di Umberto Bossi è finalmente arrivata: “Agitare ancora la bandiera della secessione significa porsi fuori dalla storia e dalla realtà”. E tuttavia non sappiamo se rallegrarcene per il fatto che sia arrivata sotto forma di replica esplicita, o se dispiacercene perché non ha assunto il tono severo dell’ammonimento. Gli avvertimenti, lo abbiamo capito, non sono nelle corde di Napolitano, ad essi preferisce piuttosto gli inviti, gli appelli e le riserve. Il Capo dello Stato ha da tempo dimostrato quale sia la sua interpretazione del ruolo che ricopre. Ed è questa: che il Presidente della Repubblica deve attenersi, nella maniera più fedele possibile, a quanto prescrive la Carta, e che il suo è un ruolo puramente istituzionale e non politico. Di questo non si può che prenderne - anche con l’animo leggero - atto. C’è solo da vedere quanto possa essere conveniente, vista l’attuale situazione politica. Di certo nessuno potrà accusarlo di aver esposto intenzionalmente il Quirinale a critiche sulla gestione degli affari istituzionali, men che meno sulle intrusioni nel conflitto politico. Tutte le volte che ha potuto rimanerne distante, e ce ne sono state, lo ha fatto. Di licenze se n’è concesse poche, anzi nessuna. Nelle fasi calde, e ce ne sono state,  in cui poteva scegliere se intervenire duramente o meno, ha scelto il meno, invitando bonariamente maggioranza e opposizione alle “riforme condivise”. Ma, lungi dal fargliene una colpa, non gliene facciamo nemmeno un merito. È tuttavia evidente che il Presidente della Repubblica goda attualmente di un larghissimo consenso popolare, ed è certamente candidato ad entrare nell’albo dei Capi di Stato italiani più amati. Più che di consenso, in realtà, si dovrebbe parlare di fiducia. Ed è anche ovvio che ce l’abbia, tutta questa fiducia, a fronte del lordume di cui si è insozzata la classe politica del nostro paese. Si potrebbe perfino azzardare l’ipotesi che se Napolitano mantiene un’ascendente così forte sugli italiani, non è tanto merito suo, quanto un demerito dei politici. In ragione degli scandali che hanno toccato, chi più chi meno, tutti i partiti – e tutte le cariche dello Stato-, l’opinione pubblica non sa a chi aggrapparsi se non all’unica figura che ha ancora una reputazione vergine e intatta. Un simile atteggiamento si attaglierebbe molto bene alla natura di noi italiani, se si pensa che già Gramsci sentenziò: “Si dovrebbe pensare che in Italia la stragrande maggioranza fosse di bricconi, se l’esser galantuomo veniva eletto a titolo di distinzione”. Tuttavia, Napolitano una risposta l’ha data, e ce la dobbiamo far bastare, almeno per ora. Molti avrebbero preferito che rispondesse più aspramente alle sciocchezze blaterate da Bossi, che fosse intervenuto con la sferza a riguardo dello scandalo escort di Berlusconi, che avesse richiamato tutti all’ordine con parole più simili alle pietre che al miele per la figura da pagliacci che stiamo facendo nel mondo intero, che avesse messo in riga la maggioranza per come sta affrontando la crisi economica. Qualcuno addirittura auspica che sciolga subito le Camere. Non sappiamo se tutto ciò rientri effettivamente nelle facoltà del Presidente della Repubblica. Le Camere, è ovvio, le può sciogliere, a patto che vi siano condizioni sociali e politiche particolari. Ma la dottrina, in merito, non è molto chiara. Se avessimo oggi al suo posto un Pertini, o addirittura l’ultimo Cossiga, ne avremmo di stare tranquilli. Via la parola ai Bersani, Di Pietro, Casini e Vendola, ci avrebbe pensato il Capo dello Stato a cantargliele di santa ragione a chi fosse uscito in maniera tanto disdicevole fuori dal seminato. Ma, purtroppo o per fortuna, di picconatori oggi scarseggiamo, e ci dobbiamo contentare di quel che abbiamo. Una persona integerrima, è chiaro, ma poco in sintonia con la provvidenza. Napolitano è l’uomo giusto al posto giusto, ma al momento sbagliato. E l’idea di dover rimpiangere la tempra dell’ultimo Cossiga, un po’ ci fa allarmare. Avremmo preferito, questo certamente, un “esternatore” alla Pertini, che non un “notaio” alla Napolitano. Ma la Storia insegna che se in pubblico i Capi di Stato tendono ad assumere atteggiamenti formali, nel privato della loro residenza non lesinano scenate e fracassi. E dato che nel pomeriggio il Capo dello Stato ha ricevuto al Quirinale i capigruppo di maggioranza Cicchitto e Gasparri, tocca sperare che almeno una tirata d’orecchie gliel’abbia fatta. Meglio di niente.

lunedì 19 settembre 2011

Crisi: è l'ora di lasciarsi andare al panico

Che di tutti i possibili approcci da assumere nell’affrontare la crisi economica mondiale, l’Italia abbia scelto il peggiore, è fuor di dubbio. Se dovessi scommettere ora su chi avrà la meglio tra il default e il nostro paese, non avrei alcuna esitazione su chi puntare: Italia – Crisi, due secco. È un po’ come se fossimo andati a un funerale con un vestito giallo sgargiante: l’abbiamo presa dal verso sbagliato. Il motivo è presto detto: un presidente del Consiglio la cui immagine è oramai compromessa sia sul piano nazionale, sia su quello internazionale, viepiù su quello dei mercati; il ministro dell’Economia il cui braccio destro Milanese è infangato nella vicenda P4; un leader dell’opposizione il cui braccio destro Penati è coinvolto in un’inchiesta di tangenti di cui non si poteva non essere al corrente; una manovra economica considerata da tutti gli esperti in materia finanziaria inadeguata, e per giunta controproducente per il paese; il leader del secondo partito di governo che, invece di chiamare a raccolta il paese per uno sforzo nazionale, pensa a indire un referendum per la secessione della Padania. È meglio fermarsi qui, se ci teniamo ancora a mantenere viva qualche flebile speranza. La situazione è di quelle che giustificano il più querulo allarmismo. Sebbene allarmarsi possa spesso essere nocivo, il non allarmarsi alle volte può essere letale. E noi italiani, esperti di vaglia nel “va tutto bene” potremmo imparare presto questa lezione. L’Italia sta affondando, questo qualcuno sembra averlo capito, altri no. Ma ora poco importa. La ricetta sicura per uscire da questa crisi, è bene chiarirlo, non la conosce nessuno, non la conoscono i tedeschi, tantomeno gli americani. Non è mia intenzione quindi stabilire qual è la soluzione alla crisi, non avendone né la capacità né la qualifica per farlo. Si possono però azzardare ipotesi su quali siano le condizioni migliori per affrontarla. E la prima è senza tema d’errore quella di un nuovo esecutivo. Chiunque andrebbe bene per presiederlo, anche la portinaia del nostro condominio (si fa per dire). I mercati già reagirebbero positivamente a un ricambio politico ai vertici. Ma questo può andar bene nel brevissimo termine, nel medio già sarebbe insufficiente e necessiterebbe di ulteriori accorgimenti. Inoltre, non c’è da spenderci più di una riga: Berlusconi non si schioderà dalla sedia nemmeno se fuori impazzasse la rivoluzione, e i suoi gregari non accennano minimamente all’idea di farlo sloggiare. Sperare nei giudici è allo stesso tempo pericoloso e inconcludente. Non solo non hanno i mezzi per sbattere il premier in galera o per indurlo alla latitanza, ma laddove ci riuscissero, metterebbero l’Italia di fronte a una sconfitta cartaginese, una Caporetto senza speranza di una Vittorio Veneto. Sarebbe una revolverata alla nuca per la politica italiana, perché privata della sua stessa ragione d’essere (lo tengano a mente coloro che sperano sempre e solo nella via giudiziaria). Se la politica ha da risollevarsi, è bene che lo faccia da sola, altrimenti è meglio che chiudiamo baracca – perché questo sta diventando il nostro paese, una baracca. Ma continuiamo. La Lega va fatta fuori: è ora di darci un taglio con l’idiozia della secessione di Bossi, che Maroni più bonariamente definisce federalismo, ma che sono in fondo la stessa cosa. Non si può amministrare un intero paese senza nemmeno fare mistero del reale intento di frantumarlo. È bene che questo punto sia chiaro, soprattutto a chi dice che ai leghisti non va dato tutta questa importanza: le fesserie padane ce le propinano da vent’anni, e se oggi l’Italia regge l’anima per i denti è anche grazie alla conventicola di Bossi. Se un giorno una bella fetta di Italia settentrionale si sarà lasciata convincere dalle fregnacce leghiste, sarà anche colpa nostra. Su questo, il Presidente della Repubblica potrebbe anche concedersi una licenza di deroga, e richiamare all’ordine Bossi. Nessuno glielo rinfaccerebbe, eviterebbe piuttosto che qualcuno un giorno prenda in mano il forcone e la faccia finire a pesci fetenti.

L’opposizione è meglio che si organizzi, ma non a chiacchiere come pensa di fare Bersani. Che, come primo segnale, potrebbe finalmente indire le tanto agognate primarie del Pd, a cui oramai non frega più a nessuno, ma che andrebbero fatte solo per principio, per misurare la sua reale propensione a fare quello che dice, e non solo a dire quello che vorrebbe fare. In tal caso, potrebbe anche capitare che gli soffino il posto, e non saremmo di quelli che se ne rammaricheranno. Se dovesse vincerle, invece, ne uscirà più forte che mai, e avrebbe già un piede a Palazzo Chigi. La maggioranza dovrebbe invece passarsi una mano per la coscienza, che già sa di avere parecchio sporca, dopo che ha stuprato la sacralità del Parlamento facendo mettere agli atti la balla che Ruby fosse, secondo B, la nipote di Moubarak. In Italia, si sa, le questioni non si risolvono mai alla luce del sole, si preferiscono i sotterfugi e i compromessi. E allora vi ricorressero. Prendessero accordi sottobanco con la minoranza, e se non vogliono perdere la poltrona andando alle elezioni, si accordassero per un governo di tecnici. Di tecnici seri, però, non di parolai e pataccari. Mettessero su una nuova manovra finanziaria, una riforma della legge elettorale e una riforma tributaria che scongiuri l’evasione fiscale, il vero cancro del paese. In due anni possono farlo, se vogliono. I privilegi e gli stipendi se li tengano pure. Delle loro elemosine non sappiamo che farcene in questo momento. Non è il tempo di riacquistare la fiducia nella classe politica, ma quello di mettere al sicuro i gioielli di famiglia prima che la casa crolli. Se ci riusciremo, allora la classe politica ne uscirà – leggermente – rivalutata. E anche il nostro paese. 

venerdì 16 settembre 2011

La secessione di Bossi. La stiamo ancora aspettando


C’è da fare uno sforzo notevole per arrivare a comprendere come una persona possa sentirsi un seguace della Lega Nord. E anche se ci si sforza, non è per niente sicuro che si riesca ad afferrare la ragion d’essere di un partito irrazionale. C’è scritto seguace, e non elettore, non per caso. Per dare il proprio voto al partito di Umberto Bossi più che la fiducia in un movimento politico, c’è bisogno di un vero e proprio atto di fede, che proprio perché è fede non necessita di essere giustificata. O lo si è, o non lo si è leghisti, di certo non lo si diventa. Il fenomeno leghista è certamente preoccupante, a fronte del 10% di suffragi che si prevede possa ottenere alle prossime elezioni. Ed è preoccupante non tanto perché è un partito di destra, reazionario, secessionista, razzista, ma perché non ha ragione d’esistere. Eppure esiste. Quando una larga fetta di popolazione comincia a lottare per delle cause fittizie, completamente avulse dalla realtà, è allora arrivato il momento di picchiare i pugni sul tavolo e far volare le stoviglie. La Lega Nord è il partito del nulla. Non vanta nessuna tradizione storica, né tantomeno si rivolge a un elettorato specifico per ceto o per ideologia politica, quanto piuttosto per occorrenze geografiche. Umberto Bossi è forse l’uomo politico più ignorante che la nostra amministrazione abbia mai offerto, ma che ha fatto della sua ignoranza la sua forza. Ha certamente saputo interpretare i malumori di una consistente fetta del paese, ma invece che alla testa del suo elettorato, si è rivolto alla pancia. E in effetti, per votarlo, ci vuole stomaco. L’Italia ha forse buttato un po’ troppo sulla mutanda l’avanzata leghista, e questo lassismo ha portato la Lega a raggiungere una porzione di potere assolutamente determinante in una consultazione elettorale, legittimandola come partito di governo di un paese da cui auspica separarsi. Dal tradizionale comizio del Monviso, il ministro delle Riforme ha dato la stura alla sua dialettica pregna di riferimenti ai miti padani, dall’esercito del nord alla secessione, tanto acclamati dalla folla lì riunita. C’è tuttavia da dubitare che nemmeno il capoccia sappia come cavarsi d’impaccio dalla situazione in cui si trova, ovvero di membro di un governo in un paese che lui sente, o dice di sentire, estraneo. Il dubbio sorge spontaneo quando si ascoltano le sue giustificazioni sul perché la Padania, regione chimerica, faccia ancora parte dell’Italia. Dice, l’Umberto, che bisogna attendere condizioni storiche favorevoli affinché qualcosa possa davvero cambiare. Così come c’è da essere scettici quando giustifica il mancato intervento della Lega durante il giro della Padania per i continui tafferugli verificatisi. Se fosse intervenuto lui, dice sempre l’Umberto, avrebbero sospeso il giro. Tuttavia non c’è da star troppo distratti. Milioni di persone sono già pronti sulle rive del Po in attesa di un lampo. Dopo il lampo, la Padania sarà fatta. Ahinoi, i leghisti, fantomatici rampolli dei Celti e di Dio solo sa cosa, sembrano, pur avendo abitato con noi italiani per tutti questi anni, non aver per nulla compreso la lezione che il nostro paese ha impartito a se stesso, e quindi anche a loro. La lezione è questa: che per fare un paese ci vuole un popolo. Se per fare l’Italia bisognava fare gli italiani, per fare la Padania ci vogliono i padani. I padani, ci duole constatarlo ancora una volta, purtroppo non esistono, a meno che non vogliamo intendere per popolo padano quei quattro scalzacani gonfi di protervia che vanno in giro di verde vestiti facendo gestacci, rutti e piriti. Montanelli, che c’aveva visto lungo, già nel ’94 definì Bossi un cavernicolo. E dopo vent’anni risulta ancora difficile trovare una definizione più adeguata del personaggio. Insomma, piuttosto che vederlo aggirarsi nel Palazzo completamente disinteressato alla sorte dell’Italia, verrebbe quasi da sperare che un giorno il capoccia dei Celti lo metta davvero su questo tanto sospirato esercito padano. E c’è da augurarsi persino che ci muova guerra. Se questo fosse l’unico modo per sbarazzarsi della palla al piede legista, così sia. Non impiegheremmo un secondo a schiacciarli sotto il tallone. A patto che, sul campo di battaglia, si presenti qualcuno.

giovedì 15 settembre 2011

Vaticano pagaci la manovra. 17 settembre manifestazione a Roma




Che il Vaticano sia una palla al piede per l’Italia, fiscalmente parlando, è oramai acclarato. Durante i mesi di questa calda estate un’ondata di disapprovazione e di sdegno nei confronti dei tanti privilegi di cui gode la Chiesa nel nostro paese è emersa, e anche fortemente. Il partito che l’ha giustamente cavalcata è stato quello dei Radicali, che nel chiedere un pizzico di equità sociale gli si fa anche un torto a definirli radicali. In questo senso, dovremmo essere tutti un po’ radicali. Soprattutto se per moderati s’intende poi Pd o Pdl, che tendono a confondere il moderatismo con il lassismo. Non staremo qui ad elencare i favori fiscali (dall’ottoxmille all’Ici) di cui la Chiesa è da tempo beneficiata, le inchieste de L’espresso fanno scuola. Proviamo piuttosto a chiederci perché la Chiesa gode di tali privilegi e perché nessuno accenna a inficiarli. La risposta è più semplice di quanto non sembri. Ed è questa: l’Italia è fondamentalmente un paese cattolico. Cattolico non in senso religioso, ma in senso politico. Da quando è stata fondata la Democrazia Cristiana, salvo un primo breve periodo di scetticismo, la Chiesa ha prestamente compreso i vantaggi che poteva trarre da un’ingerenza o anche solo influenza nella gestione del paese. Sebbene la sfera religiosa e quella politica sembrino, a primo acchitto, completamente estranee l’un all’altra, in molti paesi occidentali, e soprattutto in Italia, esse sono più intrecciate di quanto la ragione e la prassi consiglino. Basti pensare al fatto che l’istituto sacrosanto del referendum è nato in seguito all’approvazione della legge sul divorzio, nel 1970. Si pensava, scioccamente, di poter abrogare fin da subito tale legge, complice anche la mancata comprensione della natura della società italiana che, sebbene si professi sempre fedele ai dogmi cattolici, nel privato non esita a infrangerli.
Domani 17 settembre è prevista una manifestazione a Roma per dar voce a tutti coloro che sono oramai stanchi dei privilegi vaticani. Una manifestazione sacrosanta, è bene dirlo e ribadirlo. Essa è certamente un passo ulteriore nel processo di secolarizzazione del clericalismo, che da ben due millenni ci attanaglia. Ciò nonostante, siamo ancora all’inizio del cammino. Si badi, qui non si sta criticando la Chiesa da un punto di vista religioso, ma solo da quello clericale e politico. Ognuno è libero di credere alle fesserie che vuole, a patto che queste fesserie non portino con sé uno strascico nella gestione di un paese quale è l’Italia. Comunque, per chiunque si aspetti una subitanea presa di coscienza da parte della società civile e della classe politica dell’impellenza di affrontare questa tematica, è il caso di smorzare un po’ le aspettative. Nella manovra, è fuor di dubbio, non ci sarà nessuna abolizione né tantomeno ridimensionamento dei privilegi del Vaticano. Ed è assolutamente ragionevole. In Italia, paese fortemente cattolico, quanto dice la Chiesa è legge. In uno stato governato da un piazzista la cui condotta sarebbe facilmente e doverosamente attaccabile dalle alte sfere del clero e che pure ne è immune (salvo qualche critichina d’obbligo), è evidente l’esistenza di una connivenza tra potere politico e potere religioso. In tempi di crisi, dove per fare una manovra è quasi impossibile reperire fondi senza sollevare proteste di categoria, sarebbe fin troppo semplice dare un taglio netto ai benefici fiscali del Vaticano per irrorare le casse dello Stato. Tuttavia, se vogliamo rendere un favore alla nostra intelligenza, dobbiamo evitare di stupirci se nessuno lo fa. E fa anche bene a non farlo. Quale partito politico attaccherebbe il ventre del Vaticano ben sapendo che il più vasto bacino elettorale del paese è proprio quello cattolico? La Chiesa, in tal caso, impiegherebbe meno di un secondo per far perdere a un partito quel 10% (se non di più) di voti, ammazzando definitivamente le sue speranze elettorali e condannandolo all’oblio politico. Non è un caso, infatti, che in ogni partito ci siano le correnti cattoliche, e di solito sono anche le più influenti.


Insomma, va bene oggi scendere in piazza e protestare contro i privilegi fiscali del Vaticano. A patto che le domeniche, piuttosto che andare nelle piazze, si vada a protestare all’uscita delle chiese. Solo così infatti si potranno informare i cittadini di come quella Chiesa, che essi venerano ciecamente, non esiti a rubare l’argenteria in casa loro. E di come lo faccia anche sfacciatamente, perdio.

mercoledì 14 settembre 2011

L'altra Italia









La scena che vede l’ex ministro Andrea Ronchi all’uscita di Montecitorio insultare i manifestanti dei Cobas potrebbe essere interpretata da qualcuno come la fine di un’era. Un po’ come lo fu, con le dovute precauzioni, il lancio di monetine in direzione di Craxi davanti all’Hotel Raphael. Ma si sbaglierebbe.

La fiducia degli italiani nei confronti della classe politica è certamente poca, ma quella degli italiani in se stessi è probabilmente nulla. È certamente facile, e doveroso, criticare i nostri parlamentari, che da tempo immemore si comportano al di là di ogni limite della comune decenza. È tuttavia doveroso, ma più difficile, criticare la società italiana, che quella classe politica l’ha scelta e l’ha difesa, fino a quando non si è resa conto, con colpevole ritardo, della fregatura che le è stata riservata. Gli italiani sono spesso stati guidati dalla loro doppia morale, che applicavano all’universo a seconda della loro convenienza. Perché è sempre stata la convenienza, personale o di casta o di partito o di gruppo, l’unico punto fermo dell’agire nostrano, da quando l’Italia è nata – se è nata e quando solo Dio lo sa. Va di gran moda oggi appostarsi fuori dalle aule del Parlamento e gridare “buffoni” ai politici che si tuffano lestamente nelle loro auto blu. Non che non siano buffoni, è chiaro. Ma è un po’ troppo semplice, e anche infantile, mettere sulle poltrone dei cialtroni patentati per poi, quando si capisce d’aver preso il granchio, pretendere che le liberino al nostro schioccar di dita. Ora che stanno seduti, non s’alzeranno fino a quando il loro didietro non bruci. Con ciò non intendo fare un’inutile polemica. Intendo soltanto dire nient’altro che questo: va bene criticare i politici, e a volte anche insultarli, dato l’inesorabile declino a cui ci stanno condannando. A patto che non dimentichiamo la nostra fetta di responsabilità, che è pure bella grossa. Noi italiani non siamo soliti far ricorso all’esercizio della memoria, e ce ne accorgiamo ogni volta che ci fregiamo del mito della Resistenza, lasciando nel cantuccio dei ricordi impolverati l’altra Italia, quella di Piazzale Loreto, troppo diversa e troppo colpevole. Quell’Italia che senza scrupoli sputò, orinò, insultò, vessò, sparò sui cadaveri a testa in giù dei capi fascisti, gli stessi capi i cui nomi erano acclamati dalla folla soltanto pochi anni prima.

Sicuramente noi italiani ci conosciamo meno di quanto ci piacciamo. E probabilmente ci piacciamo meno di quanto pensiamo.